4
Gen
2016
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Le foto di tutti

Alcuni casi, negli ultimi giorni, hanno riportato al centro del dibattito l’utilizzo di foto pescate qua e là sui social network. il primo è quello della giovane donna morta di parto a Brescia, ricordata sui media con un’immagine che lei stessa ha pubblicato su Facebook, radiosamente incinta, in un’atmosfera natalizia. L’altro è quello della sorella di Stefano Cucchi, che ha postato le foto di uno dei carabinieri accusato di aver pestato a morte il fratello.

Un utilizzo certo spregiudicato, sul quale è giusto discutere se sia legittimo o meno. Per motivi diversi:”editoriale” il primo, “politico” il secondo. Un dibattito che spesso non tiene conto di un dato: quelle foto erano lì, a disposizione di tutti, pubblicate in un momento di quotidiana serenità dai diretti interessati, quando non potevano immaginare che quelle foto sarebbero potute essere utilizzate per questioni di interesse pubblico. E non semplicemente “pubblicate”, perché pubbliche lo erano già. Ma proposte ad una platea più ampia di quella ristretta della propria cerchia di amicizie social.

Ognuno di noi, se ci pensa bene, ne ha almeno qualcuna: innocue foto che indulgono al nostro narcisismo, che raccolgono qualche ditino alzato dei nostri amici, ma che potrebbero essere serenamente proposte, drammaticamente fuori dal contesto in cui sono state scattate, ad un pubblico vastissimo se, per qualche ragione (in linea di massima qualcosa di brutto) dovessimo trovarci al centro della cronaca.

Chiunque abbia cominciato a fare il cronista in provincia almeno dieci anni fa si è quasi certamente misurato con un esercizio giornalistico scomparso: la ricerca della foto del morto.

Se c’era un morto di interesse pubblico (il caso più tipico un giovane morto in un incidente stradale) c’era da cercare la foto. Oggi non lo si fa più: si clicca col destro sulla foto del profilo di Facebook o su una trovata su Instagram, si salva l’immagine ed il gioco è fatto.

Nell’epoca pre-social i colleghi più anziani ti guardavano divertiti: “Adesso vediamo se hai il pelo sullo stomaco che serve per fare questo mestiere”. A meno che il morto in questione non fosse impegnato in un’associazione, nello sport o in politica (in questo caso ci sarebbe stata una ragionevole speranza di avere una sua immagine nell’archivio del giornale) non restava che armarsi della peggiore faccia di tolla possibile, farsi passare i bruciori di stomaco e, vergognandosi un po’, contattare amici o genitori del morto, ragionevolmente sconvolti, per chiedere loro una foto del loro caro appena dipartito.

C’erano due possibili reazioni: chi ti apriva in maniera inaspettata le porte e l’album di famiglia per scegliere, con te, la foto più bella possibile, quasi consolato che il giornale della città volesse ricordare il suo caro appena scomparso. E’ un atteggiamento quasi incomprensibile: i sociologi dicono che faccia parte dell’elaborazione del lutto.

C’era poi chi reagiva con disprezzo: “vai a farti fottere, ignobile sciacallo“.
Chiunque si sia cimentato con questa attività, almeno una volta se lo è sentito dire.
E anche se sapevi che stavi facendo solo il tuo lavoro, sentirsi dire, con gli occhi fissi nei tuoi, “vai a farti fottere, ignobile sciacallo” dalla voce di una mamma che ha appena perso il proprio figlio era importante per ricordarsi che quella foto innocua, spesso gioiosa, aveva assunto, all’improvviso, tutto un altro significato. E che questo mestiere non si può fare senza rispettare le persone ed i loro sentimenti.
Bisognerebbe che quella voce e quegli occhi rimbombassero sempre nella testa di chiunque clicca col destro e poi fa salva immagine.
(pubblicato su www.glistatigenerali.com)
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